Attenzione alla pericolosità delle “fatture generiche”

Secondo l’ordinanza n. 9912/2020 della Cassazione, una fattura che riporta solo in modo generico la descrizione di lavori edili effettuati presso un cantiere ubicato in una specifica località non è sufficiente per dedurre i costi e detrarre l’IVA. Questo è un obbligo di legge, non opzionale, e assume particolare rilievo ai fini probatori. Infatti, spetta sempre al contribuente l’onere della prova riguardo all’esistenza dei fatti che danno luogo a oneri o costi deducibili e inerenti all’attività professionale o d’impresa svolta. La fattura costituisce un elemento probatorio solo se redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto prescritti dall’art. 21 del Decreto Iva (DPR 633/1972). In caso di fattura generica, l’incertezza che la caratterizza fa venire meno la presunzione di veridicità, per cui a quel punto il contribuente deve provare l’esistenza e l’inerenza del costo attraverso la produzione di adeguata documentazione. La produzione di documenti di spesa (tra cui ad esempio gli avvenuti pagamenti, anche con strumenti tracciabili) o la dimostrazione della relativa contabilizzazione, non sono sufficienti. Il contribuente può quindi opporre documentazione integrativa rispetto alla fattura per provare l’inerenza (e quindi la loro deducibilità, con possibilità di detrazione dell’IVA); ad esempio, può produrre i contratti relativi alle prestazioni fatturate, da cui  si evinca il contenuto dei lavori, la durata, il luogo, il personale impiegato. Nel caso specifico, la Cassazione aveva esaminato il caso di una S.r.l. che aveva tentato di dedurre i costi di una fattura che riportava una descrizione molto generica: “Fattura per lavori di muratura eseguiti presso Vs. cantiere”. In questo caso, tale descrizione generica non permette di comprendere quale tipo di attività sia stata in concreto svolta, mancando per l’appunto i requisiti di cui all’art.21 del Decreto Iva (cioè la natura, la qualità e la quantità delle prestazioni edilizie fatturate).

Se l’imprenditore è sfortunato o incapace, la società non è di comodo.

Nel nostro ordinamento è presente una normativa che tende a sfavorire le società “contenitori” di beni (in particolare immobili), al solo fine di evitarne il diretto possesso da parte delle persone fisiche. Questa normativa è quella comunemente chiamata delle “società di comodo”: se una società ha molti beni intestati, ma al contempo non svolge attività e quindi (sulla base di determinati parametri) non ha molti ricavi, allora scatta un reddito minimo che deve essere dichiarato (sulla base di coefficienti da applicare al valore dei beni) e sul quale vanno pagate le imposte.

Ebbene, la Cassazione ha stabilito (con sentenza 23384 dello scorso 24 agosto 2021) che nel caso di sfortuna o di incapacità dell’amministratore, la disciplina delle società di comodo può essere evitata (tecnicamente, si può disapplicare il test di operatività).

Il socio di società di persone può far valere il beneficio di preventiva escussione

In presenza di riscossione a mezzo ruolo di tributi, con presupposto impositivo realizzato da una società di persone, il socio può impugnare la cartella a lui notificata eccependo la violazione del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale (secondo il quale i creditori sociali, prima di rivolgersi direttamente ai soci, devono provare a far valere i loro crediti direttamente nei confronti della società e solo dopo possono rivolgersi ai soci illimitatamente responsabili).

Se siamo al cospetto di società semplici (nella pratica poco diffuse, in quanto non possono svolgere attività commerciali) o irregolari, il socio ha comunque l’onere di provare che il creditore possa soddisfarsi (totalmente o parzialmente) sul patrimonio sociale. Se si tratta di società in nome collettivo, società in accomandita semplice o società in accomandita per azioni (quest’ultime anch’esse poco diffuse), è il creditore che dovrà provare l’insufficienza del patrimonio sociale (salvo che ciò non sia già acclarato da circostanze note, quali ad esempio l’avvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese). Se tale prova non sarà fornita, sulla base di quanto previsto dall’art.2697 del c.c., il ricorso potrebbe essere accolto laddove l’onere della prova spetti all’amministrazione finanziaria che ha emesso il ruolo.

Questo è il succo di una sentenza dello scorso dicembre della Cassazione, emessa a Sezioni Unite.

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L’omessa produzione delle giacenze di magazzino determina il ricorso al metodo induttivo

Per la sentenza 32212/2019 della Cassazione, è legittimo l’accertamento induttivo laddove non è stata fornita all’amministrazione finanziaria la documentazione riguardante l’entità e il dettaglio delle giacenze di magazzino. Non presentare i dettagli e i calcoli delle giacenze, fa venir meno il rapporto di collaborazione che è previsto anche dallo Statuto del contribuente, con la conseguente possibilità dell’utilizzo delle presunzioni anche semplici.

La compensazione delle spese va limitata ai casi davvero particolari

Normalmente le spese del giudizio tributario dovrebbero seguire la soccombenza, nel senso che dovrebbero essere pagata dalla parte che risulta sconfitta nella lite. Spesso però purtroppo i giudici tributari tendono a compensare le spese di lite, anche se le norme del processo sono abbastanza rigide e prevedono che la compensazione è consentita solo nei casi di soccombenza reciproca o quando ci sono gravi ed eccezionali ragioni che devono comunque essere espressamente motivate.

La CTR Lazio, con sentenza n.4984 del 25 giugno 2019, ha stabilito così che non è ammissibile riferirsi a “gravi motivi” affermati solo in maniera astratta. Purtroppo la compensazione delle spese resta un malcostume molto diffuso nelle commisioni.

Agevolazioni prima casa: le dichiarazioni vanno effettuate subito, davanti al notaio.

La Cassazione ha chiarito (con la sentenza 23236/2018) che in caso di acquisto con agevolazioni “prima casa”, non basta essere in possesso dei requisiti, ma questi devono essere dichiarati in modo che il notaio possa inserirli nell’atto d’acquisto.

Nel caso in cui la dichiarazione rilasciata al notaio fosse errata, non sarà possibile sanarla con una sorta di integrazione, pertanto il beneficio sarà definitivamente perduto.

 

Fatture con descrizioni generiche

Benché siano sempre mal viste da parte delle autorità fiscali le fatture in cui sono malamente descritte le operazioni che ne stanno alla base, va detto che la Corte di Giustizia UE, con sentenza del 15 settembre 2016 (causa C-516/14) ha stabilito che non può essere negato il diritto alla detrazione dell’IVA in presenza di una fattura con descrizione generica, laddove esistano comunque tutte le informazioni necessarie per verificare il rispetto dei requisiti sostanziali.

Basandosi su questa sentenza peraltro anche la Cassazione (nell’ambito di una vicenda interna) ha stabilito che la presenza di una descrizione generica non determina di per sè l’impossibilità di detrarre l’iva, ma semplicemente l’inversione dell’onere della prova: il contribuente potrà provare, con documentazione integrativa, la correttezza e l’inerenza delle operazioni descritte genericamente (Cass., Ordinanza 13882 del 31 maggio 2018).

 

Uno scostamento non significativo non legittima l’accertamento da studio di settore (Sentenza CTR Sicilia, 6553/2019)

L’Agenzia delle Entrate ha emesso un accertamento nei confronti di un’ottica per accertare maggiori ricavi per circa 20.000 euro, sulla base dello studio di settore, dopo non aver accolto le osservazioni presentate in sede di contraddittorio, in particolare la rapida obsolescenza della merce trattata, legata notoriamente alle tendenze della moda.

I giudici di prime cure si sono limitati a ridurre al 50% l’accertamento, ritenendo comunque una parziale valenza allo strumento accertativo.

La difesa ha sottolineato, al di là di tutto il resto, la consistenza veramente minima dello scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi calcolati dallo studio di settore: si trattava in termini percentuali di una differenza che si attestava all’incirca sull’8%. Secondo la tesi della difesa, tale differenza non evidenzia le “gravi incongruenze” previste dalle norme sugli studi di settore, così come stabilito anche da tantissime sentenze di merito e anche della Cassazione, citate negli atti.

La CTR Sicilia, in accoglimento dell’appello ha annullato del tutto gli avvisi di accertamento, condannando l’Agenzia delle Entrate a 5.000 di spese.

Si riportano i passi salienti della sentenza:

***

La Suprema Corte ha condivisibilmente affermato (Cass. 26 settembre 2014, n. 20414; Cass., 23 dicembre 2015, n. 25902) che “l’Amministrazione finanziaria non è legittimata a procedere all’accertamento induttivo, al di fuori delle ipotesi tipiche previste dagli artt. 39, primo comma, lett.d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 54 del d.P.R.26 ottobre 1972, n. 633, allorché si verifichi un mero scostamento non significativo tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore di cui all’art. 62 -bis del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con modif. dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, ma solo quando venga ravvisata una ‘grave incongruenza’ secondo la previsione del successivo art. 62-sexies”. Segnatamente ha precisato (Cass., 14 luglio 2017, n.17486) che “ai fini della legittima adozione del metodo di accertamento del reddito di impresa (…) mediante applicazione degli studi di settore, questa Corte ha affermato il principio della permanente necessità della esistenza del requisito delle “gravi incongruenze” tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, previsto dall’art. 62- sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331 convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427

[…]

Orbene, con riguardo alle testé menzionate “gravi incongruenze”, la Corte di Cassazione ha qualificato come non significativo uno scostamento “approssimativamente vicino all’8%” (Cass. 22 febbraio 2019, n. 5327). Nella specie, lo scostamento tra l’importo dei ricavi dichiarati dalla società e quelli calcolati in base agli studi di settore è, per l’appunto, di appena l’8,11%. Tale scostamento appare molto ridotto, soprattutto in relazione all’ammontare dei ricavi dichiarati pari a euro 216.247,00 a fronte della somma di euro 235.330,00 accertata in base agli studi di settore, sicché non si è verificato uno scostamento significativo idoneo a legittimare gli atti impugnati. E ciò a maggior ragione ove si consideri la marcata obsolescenza della merce che caratterizza il settore di operatività del contribuente.

Ne consegue che l’operato dell’Ufficio è illegittimo e che le sentenze di primo grado meritano di essere riformate.

[…]

P.Q.M.

La Commissione, in riforma delle sentenze di primo grado, appellate dai contribuenti, annulla gli atti impugnati e condanna l’Ufficio al pagamento, a favore dei contribuenti, delle spese relative ad entrambi i gradi del giudizio liquidandole in euro 2.000,00 per il giudizio di primo grado e in euro 3.000,00 per il giudizio d’appello, oltre oneri di legge.

Fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti: prova dell’Amministrazione

Secondo la CTP Foggia, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione deve provare la consapevolezza del destinatario in merito al fatto che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta. I giudici hanno così affermato: “Non è il ricorrente a dover fornire la prova della buona fede, ma l’amministrazione finanziaria a dover fornire la prova della consapevolezza dell’inserimento in un prospetto d’evasione”.

(ref.A001)